Massimo Canevacci Lettera aperta per la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma
Le nuove scelte didattiche della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” mi impongono di rendere pubbliche alcune perplessità, poiché, a fronte di un’indubbia crisi dell’ordinamento triennale, si è deciso di ristrutturare l’ordine degli studi secondo una visione della comunicazione restaurativa e schiacciata sull’esistente. In tal modo, la scienza della comunicazione rischia di ridursi a una preparazione professionale di taglio giornalistico; le connessioni sperimentali e trans-disciplinari con quanto emerge nella comunicazione digitale (estesa tra design, architettura, pubblicità, performance, musiche, moda, arte ecc.) spesso risultano incomprese, “non controllate” o neutralizzate in “tecniche”; e vengono ignorate, di conseguenza, quelle ricerche che stanno tentando modificare paradigmi espositivi, composizioni espressive, narrazioni multisequenziali. Tale tendenziale rinchiudersi della comunicazione dentro un giornalismo asfittico e un’apologia dei media impoverisce la Facoltà, trasforma i docenti in funzionari dell’“industria culturale”, addestra gli studenti alla rinuncia all’innovazione e all’assenso disciplinato, chiude alle nuove professionalità che attraversano visioni, stili, linguaggi, è indifferente alle prospettive che nelle università estere da tempo vengono applicate in questo ambito (si veda il ruolo dell’antropologia culturale nei Media Studies in tante università estere – MIT, Humboldt Universität, Escola de Comunicação e Arte dell’Università di São Paulo con la quale ho stabilito un accordo di scambio tra docenti e studenti). Tutto questo rischia di configurare provincialismo disciplinare, endogamia mass-mediale, diffidenza dell’emergente, sottrazione delle potenzialità digitali. La materia che ho insegnato per più 20 anni – Antropologia Culturale, materia fondamentale per gli studenti di primo anno – è stata soppressa, mentre a Roma, in Italia e ovunque, sarebbe necessario moltiplicare le ricerche con questo orientamento, per contrastare le pericolosissime onde razziste, le chiusure localistiche, i decisionismi verticistici, le grettezze mediatiche. Si è preferito, invece, puntare su materie “classiche” (diritto e storia), eliminando la prima delle tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, sociologia, psicologia). Il docente che la insegnava viene “esiliato” al terzo anno del corso di laurea di Cooperazione e Sviluppo, con una materia denominata Comunicazione Interculturale. Già nel titolo del corso si esprime la continuità di un dominio neo-coloniale dell’Occidente verso un mondo “altro”: che la “cooperazione” sia focalizzata a dare aiuti economici ai laureandi e ai rispettivi Paesi di residenza, piuttosto che all’“altro”, dovrebbe essere ormai evidente; e sulla critica al concetto di “sviluppo” sono stati scritti così tanti saggi prima e dopo il ‘68 che è noioso solo ricordarlo. Quindi si crea una materia come Comunicazione Interculturale, che fin dal nome rafforza chiusure identitarie e culturali, regressioni scientifiche e formative, che purtroppo appaiono in sintonia con quelle politiche da “lega romana” adeguate al clima imperante, in cui un cattolicesimo appiccicoso cerca di controllare governi e opposizioni, atenei, facoltà, docenti. I riferimenti cui la mia cattedra si è ispirata sono collocati, tra gli altri, nel filone antropologico inaugurato da Gregory Bateson: che, a partire dalle sue ricerche anticipatrici a Bali, hanno permesso di elaborare il “doppio vincolo”, concetto tra i più straordinari applicato sia alla comunicazione “normalmente” psico-patologica che ai mass media nascenti; fino alla sua collaborazione con Wiener per le primissime ricerche sulla cibernetica. Anziché dedicarsi a santi e madonne, processioni e proverbi – temi troppo spesso esclusivi nell’insegnamento di questa materia da noi – la ricerca antropologica di Bateson si inserisce nei flussi già all’epoca emergenti di comunicazione, tecnologia, alterità. Infine, questa lettera non rivendica nulla di personale (vado in pensione dal prossimo anno e lascio quindi questa Facoltà). Essa esprime un posizionamento politico-culturale che individua, nella crisi crescente e apparentemente irreversibile della Facoltà di Scienze della Comunicazione, un problema su cui indirizzare la riflessione critica nell’interesse di docenti, studenti, impiegati: di chiunque viva e respiri l’aria di un’università che cerchi di dare senso ai futuri possibili e non si limiti a replicare il peggio dei presenti mediatizzati.
come potrai immaginare, la tua lettera mi ha molto sorpreso, sia per i toni che usi e le modalità con le quali l'hai diffusa, sia per il fatto che su questi argomenti (il ruolo dell'antropologia nei curricula di Scienze della comunicazione e il senso complessivo della comunicazione interculturale) abbiamo avuto di recente un lungo e sereno colloquio nel quale credevo di averti dato le informazioni che mi pareva ti mancassero e di aver chiarito alcuni dei tuoi dubbi più importanti.
Ti rispondo dunque nella mia veste di presidente dell'Area didattica che mi sembra sia oggetto delle tue critiche più radicali nonché di docente che condividerà con te il corso la cui denominazione (e il cui spirito) contesti, vale a dire Comunicazione interculturale.
Innanzitutto voglio dirti che considero assolutamente inaccettabile la tua affermazione secondo cui l'eventuale riduzione dello spazio per l'antropologia culturale nei nostri curricula avrebbe come esito la perdita dell'incisività critica rispetto al sistema della comunicazione, o addirittura, come dici, l'adesione ad una "visione della comunicazione restaurativa e schiacciata sull'esistente", quasi che la potenzialità critica fosse prerogativa esclusiva delle discipline di cui ti fai portavoce. Mi pare evidente che la capacità critica non può essere ancorata ad etichette disciplinari, ma è il risultato di scelte e di approfondimenti che ciascuna disciplina compie con gli strumenti scientifici che le sono propri. Certamente, come sai, esiste una lunga tradizione critica nella sociologia, che costituisce l'asse portante della nostra Facoltà, ma anche nella psicologia, che mi onoro di rappresentare, e così in tutte le altre articolazioni delle scienze umane. Respingo poi con forza l'idea, e qui parlo proprio in quanto presidente dell'Area didattica, che i nostri curricula siano appiattiti su un "giornalismo asfittico", di taglio tecnico-professionale. Nei nostri curricula gli insegnamenti di area giornalistica ci sono, come è giusto che sia, ma non sono affatto in numero esorbitante, e soprattutto sono perfettamente inseriti in quella cornice di scienze sociali che costituisce il pregio e il tratto distintivo della nostra Facoltà.
Tutto ciò premesso, ti faccio notare che non è affatto vero che gli insegnamenti di area antropologica siano stati sottovalutati o marginalizzati. La nostra Facoltà, come risulta chiaramente dai confronti nazionali dell'osservario Unimonitor, è una delle prime per presenza di tali materie nei curricula e per numero di docenti di quel settore. Come ti ho detto a voce, ciò che è avvenuto è che anche per l'antropologia, come per tutte le altre materie, i vincoli del nuovo contesto normativo hanno imposto un accorpamento dei moduli, sicché, come in molti altri casi, non abbiamo potuto mantenere la distinzione tra una materia "di base" e le sue applicazioni al campo comunicativo, né mantenere la chiara differenziazione fra le diverse sensibilità scientifiche che sono rappresentate nel settore. La materia si chiama ora "Etnoantropologia delle culture contemporanee", epigrafe che è sembrata abbastanza ampia da dare spazio a tutte le possibili declinazioni e applicazioni; è stata collocata al terzo anno sia per esigenze di compattamento dei curricula, sia perché è sembrato che si trattasse di un sapere che necessitasse, a monte, di una preparazione sui fondamenti delle altre discipline sociali e comunicative.
Né è vero poi che nei nostri curricula manchi la sensibilità a ciò che di nuovo si muove sul versante della comunicazione digitale. Questa tua affermazione mi sembra davvero paradossale, posto che l'etichetta è ora parte del titolo di ben due delle lauree specialistiche ed esistono almeno otto tra materie e laboratori che ne occupano in maniera diretta, tra cui una delle materie che ti è stata assegnata per il prossimo anno, appunto "Arti e culture digitali".
Ci tengo a segnalarti che tutto ciò è stato deciso nel corso di numerosi incontri istruttori, i cui risultati intermedi sono stati regolarmente inviati a tutti i docenti. Nel rispetto della normativa, ma soprattutto della sostanza della partecipazione democratica, l'articolazione della nuova offerta formativa è stata progettata in diverse riuinioni della Consulta paritetica per la didattica (come di consueto allargate a tutti i docenti), in apposite riunioni dei Consigli di Area didattica, e ovviamente in diversi Consigli di Facoltà, i quali hanno prima dato gli indirizzi generali e infine approvato il risultato del lavoro istruttorio. In tutte queste fasi i tuoi colleghi del settore sono stati largamente presenti, con osservazioni generali e proposte specifiche, che nella maggior parte dei casi hanno trovato convinto accoglimento. Resto quindi particolarmente stupito (e se mi permetti anche amareggiato) nel sentir aleggiare nel tuo scritto, e più ancora, in maniera anche esplicita, in alcuni interventi ascoltati in Consiglio, l'accusa di un accentramento verticistico delle decisioni.
E vengo infine ad una questione che mi preme molto, vale a dire il presunto carattere intrinsecamente conservatore e regressivo della tematica della cooperazione allo sviluppo, nonché della prospettiva della comunicazione interculturale. Qui il discorso si dovrebbe necessariamente approfondire molto al di là dei limiti di questa breve nota, e spero che ci sia presto occasione per farlo, anche in sede pubblica. Per il momento posso dirti che per quanto mi riguarda, come nel caso delle diverse discipline, né la potenzialità critica né gli intendimenti restaurativi possono essere agganciati in quanto tali ad un'etichetta: si può concepire la cooperazione e lo sviluppo in termini neo-coloniali o in termini profondamente rispettosi delle specificità e delle vocazioni locali, così come si può parlare di comunicazione interculturale concependo le culture come entità statiche e impermeabili oppure come processi dinamici in continua transizione e ibridazione reciproca. Ma su ciò avremo modo di confontarci in maniera proficua, se confermerai la disponibilità a svolgere insieme a me quel corso il prossimo anno.
In definitiva, mi sembra che le questioni che tu sollevi (la necessità di un approccio critico allo studio dei media e le modalità di relazione tra culture diverse) meritino molta attenzione e non debbano essere avvilite in polemiche che risentono di contingenze occasionali e vicende personali. Spero di avere presto occasione di discutere di tutto ciò, in pubblico e in privato, con la consueta serenità e costruttività.
Lettera aperta al preside e ai colleghi della Facoltà di Scienze della comunicazione
Caro Preside, per attenuare i toni delle reazioni al mio intervento in CdF di venerdì scorso, ritengo opportuno fare alcune precisazioni. E’ mia opinione che la lettera di Canevacci, data la rilevanza delle critiche espresse e dei temi sollevati, meritasse di essere esaminata e commentata dal consiglio quel giorno stesso. La lettera solleva temi e problematiche da tempo discusse tra colleghi senza che tuttavia si sia raggiunta ancora una prospettiva analitica chiara e matura così da poter progettare una politica culturale incisiva e innovativa per SdC. Probabilmente le modalità in cui le idee di Canevacci sono state espresse e il contesto avrebbero richiesto una più lunga preparazione alla discussione e il mio intervento, forme meno irruenti. Tuttavia alcune incertezze rimangono e andrebbero affrontate in un dibattito, pur con dissensi e critiche, le cui conclusioni possano porsi a fondamento di una SdC radicata nel contesto socio-politico attuale e al servizio di una rinnovata società umanistica. Canevacci mette in luce due fatti. Il primo:
a- Vi è una propensione a Sdc a dar spazio a forme di comunicazione legate all’establishment, ai contenuti mediatici così come ci vengono offerti dalla TV, ad un giornalismo prevalentemente celebrativo del potere, ad un’ideologia del consumismo, del prodotto, della marca. Il tendenziale orientamento di rinserrare la comunicazione dentro un giornalismo “asfittico” qual è quello attuale e di celebrare i media così come sono proposti dal sistema politico ed economico, impoverisce la Facoltà. La nostra “Scienza della Comunicazione rischia di ridursi a una preparazione professionale di taglio giornalistico; le connessioni sperimentali e trans-disciplinari [..] spesso risultano incomprese [..] e vengono ignorate [..] quelle ricerche che stanno tentando di modificare paradigmi espositivi…”
Ora si può essere più o meno d’accordo sui quest’analisi ma certamente queste osservazioni vanno prese in seria considerazione. Anche se fossero solo parzialmente vere, val la pena di verificare lo stato attuale del nostro modo di fare “comunicazione” e, nel caso, mettere in atto le procedure necessarie a farci produrre una reale conoscenza critica della comunicazione. Ad esempio, temi quali il packaging, la marca, la pubblicità potrebbero essere affrontati in maniera da mettere in evidenza i limiti del consumismo, il suo impatto negativo sull’ambiente, gli aspetti deleteri della pubblicità e di alcuni modelli di comportamento diffusi dalla TV.
In un clima politico quale è quello attuale mi sembra che SdC potrebbe maggiormente mobilitarsi per promuovere azioni, interventi, comunicazioni, filmati o quant’altro per denunciare, ad esempio, le posizioni di Maroni che sta mettendo in atto delle vere e proprie leggi razziali. Altri problemi simili sono quelli legati all’immigrazione, alla convivenza multiculturale, al rafforzarsi del carattere multietnico delle nostre città, al razzismo. Tutti temi “vigorosi” legati alla comunicazione. Temi dove, per la maggior parte, l’antropologia ha molto da dire sia sul piano teorico sia su quello della ricerca sul terreno. Insomma si ha l’impressione che si dia maggiore spazio a rielaborare i temi classici e consueti della comunicazione e dei messaggi mediatici mentre si potrebbe rafforzare e privilegiare lo spazio dato a temi comunicativi “forti”, incisivi, realmente radicati nel contesto socio politico attuale.
Il secondo punto:
b- La riformulazione delle lauree triennali e di quelle Magistrali ha ridimensionamento la presenza e l’impatto delle materie antropologiche a favore di altre discipline. Canevacci dice testualmente: ”Si è preferito puntare su materie classiche (diritto e storia) eliminando la prima delle tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, Sociologia, psicologia).” Quindi non dice e non pensa che l’antropologia sia la più importante. Dice solo che è una disciplina tra quelle fondamentali per dare allo studente gli strumenti per elaborare un pensiero autonomo e critico e che lo spazio dato a questa disciplina è stato ridotto notevolmente.
Ancora una volta le interpretazioni possono essere diverse e contrapposte. La realtà può essere percepita dal punto di vista della commissione di programmazione oppure, ad esempio, dal mio. La mia opinione è che siano state fatte scelte che hanno ridimensionato l’antropologia a favore di altre discipline. Ciò che dice Canevacci è che lo spazio che un tempo si dava all’antropologia era importante per lo sviluppo e la formazione delle conoscenze tra i nostri studenti. Per sostenere questa sua affermazione cita scuole antropologiche e autori che sono i pilastri della nuova antropologia. Io vorrei ricordare anche la scuola francese che ha contribuito, con esponenti quali Devereux, Lacan e Foucault, alla rielaborazione di un’antropologia con prospettive teoriche e metodologiche innovative e radicate nel contesto attuale della globalizzazione, della multi cultura e dei conflitti che ne derivano. Per dirla con Massimo, l’antropologia non è “santi e madonne, processioni e proverbi” bensì vuole essere uno strumento euristico continuamente rimodulato per adeguarsi al cambiamento sociale e culturale. Comunicazione, media, messaggi o reti web possono essere contestualizzate e interpretate correttamente specialmente con l’uso dello strumento antropologico che esalta la dinamicità delle culture e delle loro diversità; che riesce a scorgere i primi tendenziali comportamenti innovativi che nascono nelle micro culture locali. Ecco quindi che il ridimensionamento dell’antropologia nel nuovo ordinamento approvato rischia di favorire un approccio acritico alla comunicazione.
Mi ricresce che la collega Faccioli si sia sentita offesa per quel mio “avete deciso tutto voi”. So quanto ha fatto per la Facoltà e ha la mia considerazione per il lungo lavoro svolto. Tuttavia la mia affermazione può avere anche un solo pizzico di fondamento. Ammetto che non si tratta certo di un accentramento verticistico delle decisioni prese dalla Commissione. Certamente posso ammettere di essere stato disattento e di non aver partecipato a tutte le riunioni. Ammetto anche che non avevo nessun titolo per aspettarmi di essere consultato. Tuttavia la sola persona che mi ha cercato in modo allarmato e informato di come stavano andando le cose alla Commissione, è stata la collega Rami. Non sono stato neppure contattato da Leschiutta, che pure era un membro della Commissione. Alla fine ho potuto solo prendere atto delle decisioni prese. Ivi compresa la denominazione etnoantropologia al terzo anno di S.eT.d.C. Una denominazione certamente legittima e in uso presso altre Facoltà ma tuttavia riduttiva e fuorviante. I nostri studenti si meriterebbero di meglio e avrebbero bisogno di una buona etnologia e di una altrettanto buona antropologia che avrebbero potuto essere messe come discipline a scelta in alternativa.
Infine mi dispiace che il Preside abbia considerato la mia presa di posizione un’espressione direttamente critica ala sua gestione. E’ vero invece che, per quanto possa valere il mio appoggio, ho sempre sostenuto pubblicamente e in privato il suo operare.
Il dibattito che si sta sviluppando su queste pagine sul ruolo dell'antropologia negli studi sulla comunicazione è molto interessante; ma non deve essere inquinato da inesattezze o vere e proprie falsificazioni dei fatti, com'è accaduto nell'articolo pubblicato ieri da Repubblica. Insieme agli altri presidenti di corsi di studio della Facoltà di Scienze della comunicazione di Roma Sapienza ho inviato ieri al quotidiano questa richiesta di rettifica, che ritengo utile mettere a conoscenza di tutti gli interessati. Ristabilire la verità dei fatti è essenziale per un sereno confronto, soprattutto per chi come me nutre grande stima personale e scientifica nei confronti di Massimo Canevacci.
Al Direttore di Repubblica
con riferimento all'articolo firmato da Elena Vincenzi, pubblicato in data 2 luglio 2008, segnaliamo che esso contiene affermazioni in qualche caso inesatte, in altri destituite di ogni fondamento, che risultano lesive dell'immagine della Facoltà. In proposito le evidenziamo quanto segue:
1. Non è vero che dal prossimo anno è stato annullato l'insegnamento dell'antropologia culturale nella nostra Facoltà. E' previsto infatti un insegnamento specifico di "Etnoantropologia delle culture contemporanee" al terzo anno della laurea triennale in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Altri moduli di insegnamento che fanno riferimento al medesimo settore disciplinare dell'antropologia culturale sono previsti nel complesso dell'offerta formativa della Facoltà (per un totale di 63 crediti). Comparativamente con quella di altri corsi di laurea in Scienze della Comunicazione in Italia, ed anche rispetto ad altri corsi di scienze sociali, la Facoltà di Roma risulta fra quelle con più significativa presenza di insegnamenti afferenti a quel settore disciplinare.
2. La riprogettazione dell'offerta didattica della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma Sapienza, obbligatoriamente prevista da una specifica normativa, è stata oggetto di un lavoro durato quasi due anni, che ha coinvolto in diversi momenti di confronto i docenti ed è stato arricchito anche da un costruttivo incontro con le parti sociali interessate. La nostra Facoltà è una delle poche che ha rinviato di un anno l'attivazione del nuovo ordinamento per estendere la possibilità di dibattito. Il quadro dell'offerta formativa approvato all'unanimità dal Consiglio di Facoltà è pertanto il risultato di questo percorso, nel quale hanno dato contributo attivo anche i docenti che fanno riferimento al settore di antropologia culturale. Il prof. Canevacci, che per sua scelta non ha partecipato a questo percorso di elaborazione collettiva, ha sempre comunque ricevuto tutti i documenti prodotti nelle diverse fasi e non ha mai sollevato rilievi.
3. E' un falso che la Facoltà abbia deciso il pensionamento anticipato del prof. Canevacci, per la buona ragione che non è di competenza della Facoltà decidere sui tempi di pensionamento. Il prof. Canevacci sarà in servizio fino al 31.10.2009, avendo anche usufruito del biennio di proroga previsto dalla normativa.
Contiamo sulla circostanza che il giornale riconosca le buone ragioni di un'istituzione, documentate in questa nota, e confidiamo in un'adeguata rettifica, fermo restando il diritto della Facoltà per ogni azione a tutela dei suoi interessi.
Simona Colarizi, Presidente del Corso di Laurea interfacoltà in Scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e le relazioni tra i popoli Franca Faccioli, Presidente dell'Area didattica in Comunicazione e organizzazioni per le imprese e le istituzioni Bruno Mazzara, Presidente dell'Area didattica in Comunicazione, tecnologie e sistemi editoriali.
Per Bruno Mazzara: Lei scrive nella sua nota "si può concepire la cooperazione e lo sviluppo in termini neo-coloniali o in termini profondamente rispettosi delle specificità e delle vocazioni locali, così come si può parlare di comunicazione interculturale concependo le culture come entità statiche e impermeabili oppure come processi dinamici in continua transizione e ibridazione reciproca."
Per quanto si possa sperare che lei tenda verso la seconda interpretazione, mi preme farle notare che quanto lei ha scritto è scientificamente scorretto. Non si può concepire la cooperazione internazionale come neocolonialismo ne si possono studiale le culture altre come se fossero statiche e autoreferenziali.
Spero lei si renda conto di stare offrendo un pessimo servizio alla facoltà che rappresenta.
Quanto lei afferma possibile riguarda forse e purtroppo le interpretazioni politiche dell'antropologia, abbandonando ogni pretesa di scientificità.
La ringrazio di aver voluto partecipare a questo dibattito, sottoponendosi a facili critiche. Colgo l'occasione per invitarla a riflettere su quanto il nostro paese e la nostra Università dipendano dal coraggio che riuscirete a dimostrare in questi anni, al servizio che sarete in grado di offrire a generazioni che dovranno vivere in un mondo sempre più piccolo e interconnesso.
Al Direttore de La Repubblica Leggo con estremo stupore la smentita che colleghi quali Franca Faccioli, Simona Colarizi e Bruno Bazzara hanno inviato a La Repubblica: questi miei colleghi stanno affermando chiaramente il falso. E questo mi addolora profondamente. Antropologia culturale era materia di primo anno: ed è stata eliminata. Questo è il fatto.
Antropologia culturale era (ed "è") materia che si chiama solo in questo modo come la logica più classica afferma: Antropologia Culturale, appunto. Se si trasforma in "etno-antropologia delle culture contemporanee" è una altra cosa, non solo perché insegnata da colleghi diversi ma perché si scrive in modo diverso e per questo manifesta concetti diversi. Mi pare che la stessa banale logica identitaria (non dico epistemologica) abbia abbandonato gli anzidetti docenti, presi come sono dal furore di togliere di mezzo questa disciplina che è e rimane Antropologia Culturale.
Antropologia culturale materia fondamentale al primo anno (a me affidata e alla collega Rami, secondo una tradizione che risale al Prof. Tullio Tentori) non può essere la stessa cosa di "etno-antropologia delle culture contemporanee" al terzo anno (affidata a Leschiutta e Sarnelli, che seguono ben altra tradizione politico-culturale). Perché questi tre docenti dichiarano il falso? Che messaggio stanno dando non solo al giornale quanto agli studenti e a loro stessi?
Infine, la questione del mio "pensionamento" è stata una piccola incomprensione con la giornalista Maria Elena Vincenzi già chiarita da me ieri stesso con una lettera inviata sia al giornale che alla facoltà. Eppure ora non posso non dire che se la facoltà avesse offerto alla critica e alla ricerca spazi per continuare la didattica, personalmente avrei trovato difficoltà ad andarmene. Ora sono consapevole della correttezza delle mie scelte prese prima di questa triste storia.
Caro Bruno, vedo con piacere che la tua lettera ha un’impostazione aperta e ferma come la mia prima e come sarà quest’ultima. Che inizia con una dichiarazione piena di una logica appassionata: l’antropologia culturale deve essere reinserita al primo anno.
La soluzione pratica si può e si deve trovare. La scelta politica per me è trasparente: basta dare un’occhiata alle tante mail che arrivano sul blog della Meltemi per penetrare le riflessività di tanti studenti ed ex-studenti per i quali questa materia (insieme ad altre) al primo anno ha contribuito a un processo di apertura mentale e riflessività intra-personale che oltrepassa la singola disciplina. È questo transitare continuo tra le grandi questioni che appassionano ogni singola persona, specie nei momenti fondamentali della propria esperienza formativa – il senso, culturalmente differente, attribuito a morte, religione, politica, sessualità, corporalità, espressività, metropoli. È questo penetrare i tratti micro della comunicazione (pubblicità, design, arte, architettura, web, ecc.) e delle esperienze etnografiche sul campo (polifonie Bororo, Xavante, Kraho e sincretismi metropolitani tra São Paulo, Roma, Tokyo). È questo che fa la specificità dell’antropologia culturale. Non la sua riduzione a “esame”. Infatti gli studenti più sensibili (e per me sono tanti!) non “fanno l’esame”, bensì presentano le loro riflessioni creative, partendo dal corso e dai testi, per arrivare alle loro tesine in forma di composizioni. Questo lavoro si intreccia con lo studio delle altre materie: non ho mai detto che la mia materia è l’unica a svolgere tale funzione. Dico che è parte costitutiva ineliminabile della didattica offerta agli studenti nel primo e più aperto degli anni formativi.
La scelta di alcuni colleghi di proporre l’inserimento di una disciplina quale “etno-antropologia delle culture contemporanee” esprime una posizione discutibilissima, e la facoltà, accettando questo titolo aberrante – per compiacere docenti sempre attratti solo da madonne e tradizioni popolari –, dichiara esplicitamente di non essere in grado di svolgere la sua funzione didattica e di ricerca. Mescolare etnologia e antropologia, che in Italia hanno lunghe e complesse storie che non è il caso di ricordare adesso, significa offrire un titolo incomprensibile che allontana definitivamente queste discipline dagli orientamenti internazionali. Aggiungere, poi, la specificazione “delle culture contemporanee” inserisce elementi gravissimi di confusione tra un razzismo implicito e un eurocentrismo dichiarato: Malinowski quando studiava i Trobriandesi non studiava forse culture a lui contemporanee? O Geertz, osservando il combattimento dei galli a Bali, non era profondamente immerso nella sua contemporaneità? E le ricerche etnografiche tra i giovani raver degli anni ‘90, gli avatar dei primi 2000 o i “filippini” che vivono ai margini della stazione Termini non sono altrettanto contemporanei delle costruzioni di Toyo Ito o delle istallazioni di Bill Vilola? O dei Bororo, degli Xavante, o di noi stessi? Questa titolazione disciplinare sottintende che gli attuali Bororo sono parte di culture del passato, come tanti giornali hanno recentemente sostenuto, pubblicando articoli e servizi sulla scoperta degli “uomini rossi” in Brasile e che ho cercato proprio a RAI1 di contrastare inutilmente. La maggior parte dei giornalisti pensa ancora ai popoli viventi in luoghi “esotici” come l’Amazzonia come a primitivi che sbucano dal passato. Anzi, come al passato archeologico dell’umanità. Culture primitive senza virgolette, selvagge come tanti continuano a scrivere, culture che non usano come noi le tecnologie digitali (video, internet, cd ecc.), o che, se lo fanno, sarebbero state omologate dall’Occidente! Razzismi diffusi, pregiudizi dominanti, etnocentrismi volgari. Stereotipi, come alcuni di quelli che spesso riguardano noi italiani: provinciali, mediterranei e rozzi. Ignoranze legittimate dalle università italiane? Insomma, sottolineare la dimensione contemporanea delle culture e agglutinare perversamente etnologia e antropologia è disastro linguistico, catastrofe disciplinare, decesso universitario. Questo sta legittimando la nostra facoltà.
Ho pudore a parlare di me. Eppure, l’avermi “affidato” una materia contraria ai miei principi scientifici (Comunicazione Interculturale) che – simmetricamente – afferma la stessa logica perversa di una “etno-antropologia delle culture contemporanee”, suscita la mia ribellione e impone il mio fermo rifiuto a legittimare, nella nostra facoltà, una visione tardo-colonialista delle relazioni tra “noi” e gli “altri”, in cui passa un concetto “neutro” di sviluppo messo sotto critica da decenni. Esiliato al terzo anno di un corso di laurea come “Cooperazione e Sviluppo”, dove per cooperazione si intende sempre più chiaramente un processo eurocentrico di autofinanziamento per esportare modelli esogeni a differenti culture, spesso di sostegno agli interventi militari, di cui Comunicazione Interculturale diviene materia vassalla al dominio di un certo “Occidente”. Esattamente l’opposto di quella che è stata fin dall’origine l’esperienza critica e la forza epistemologica di ogni antropologia, anche alla faccia degli studi post-coloniali.
Questa si chiama restaurazione politico-culturale. Questo si chiama provincialismo e rischio di schiacciarsi sulle politiche dominanti.
Mi dispiace, caro Bruno, ma non trovo altri termini per definire lo stato della facoltà e vorrei che anche altri colleghi si smuovessero dal loro torpore. La gravità estrema della politica italiana e in particolare della nostra città dovrebbe favorire ed estendere le ricerche etnografiche sulle complesse relazioni comunicazionali ed espressive tra questi “noi” e questi “altri” e anche questi “altri-noi” che si incrociano, si innestano e si ibridizzano – anche conflittualmente – sempre più. Il preside e anche tu mi avete detto: perché non l’hai detto prima? È un’osservazione giusta. La mia spiegazione è la seguente:
1. In primo luogo, sono un ricercatore “puro”, mi dedico da sempre a questo e in genere mi relaziono con difficoltà alle attività istituzionali previste dalla facoltà. Riconosco che è un mio limite. 2. È vero, non ho partecipato anche all’ultima riunione decisiva, ero a Tokyo con sei miei studenti per fare alcune lezioni su invito della Musashino University, che non casualmente si basa su comunicazione, arte, design. Forse immaginavo che i destini dell’antropologia non fossero legati solo al sottoscritto, bensì anche a colleghi “affini” e alla facoltà nel suo insieme. Non è stato così. Non solo, è avvenuto il contrario: una sopraffazione di colleghi dimessi, pronti ad accettare e a sottomettersi a qualsiasi dispositivo gerarchico. 3. I precedenti presidi (Abruzzese e De Masi), pur nelle nostre differenze e direi proprio grazie alle nostre differenze, mi hanno coinvolto nella gestione della facoltà e ho sempre accettato con passione. Ex-cathedra è stato un esempio che qualcuno ricorderà, anche se la partecipazione dei colleghi fu episodica. Con l’attuale preside, si è stabilito fin dall’inizio un rapporto di non ingerenza reciproca che personalmente ho sempre rispettato. Solo ora posso dire – a partire dalla nuova programmazione dei corsi di laurea – che la sua impostazione si presenta molto diversa da come a mio avviso dovrebbero offrirsi le scienze della comunicazione: un visione estesa ad ampio raggio sulla complessità straordinaria che offrono le prospettive comunicazionali trans-disciplinari e sperimentali. Al contrario, a me pare che la facoltà si stia restringendo dentro una gabbia giornalistica orientata verso i tradizionali mass-media, abbassando le potenzialità digitali a semplici tecniche da apprendere. Si vedano gli incontri programmati e le numerose attività della presidenza, fino alla sorpresa dell’ultimo consiglio di facoltà dove il preside ha annunciato la trasformazione delle bacheche in outdoor pubblicitari, senza che un solo docente abbia sollevato non dico un’obiezione, ma una timida domanda almeno sul tipo di pubblicità e su come questo ingresso pubblicitario verrà percepito dagli studenti. La mia conclusione, caro Bruno, è un invito a rompere le tue chiusure, a riaprire il dialogo e a leggere con dolcezza e attenzione le mail che arrivano al blog che una straordinaria casa editrice militante e partecipativa ha scelto di affiancare: la Meltemi. Esse parlano di una nostra facoltà che tu hai ancora la possibilità di far vivere. Un caro saluto Massimo
PS Leggo con estremo stupore la smentita che colleghi quali Franca Faccioli, Simona Colarizi (responsabile del tardo-colonialismo storico) e te stesso avete inviato a La Repubblica: state affermando chiaramente il falso. E questo mi addolora profondamente. Antropologia culturale era materia di primo anno: ed è stata eliminata. Antropologia culturale era (“è”) materia che si chiama solo in questo modo come la logica più classica afferma, Antropologia Culturale, appunto: se si trasforma in “etno-antropologia delle culture contemporanee” è un’altra cosa, non solo perché insegnata da colleghi diversi ma perché si scrive in modo diverso e quindi risponde a concetti diversi. Mi pare che la stessa banale logica identitaria (non dico epistemologica) vi abbia abbandonato, presi come siete dal furore di togliere di mezzo questa disciplina che è e rimane Antropologia Culturale. Invito tutti i colleghi a prendere posizione almeno su questo punto: se antropologia culturale fondamentale al primo anno (a me affidata e alla collega Rami) sia la stessa cosa di “etno-antropologia delle culture contemporanee” al terzo anno (affidata a Leschiutta e Sarnelli). Perché tre docenti come voi dichiarano il falso? Che messaggio state dando non solo al giornale quanto agli studenti e a voi stessi? Infine, la questione del mio “pensionamento” è stata un’incomprensione con la giornalista già chiarita da me ieri stesso con una lettera inviata sia al giornale che alla facoltà. Eppure ora non posso non dire che se la facoltà avesse offerto alla critica e alla ricerca spazi per continuare la didattica, personalmente avrei trovato difficoltà ad andarmene. Ora sono consapevole della correttezza delle mie scelte prese prima di questa triste storia. Massimo Canevacci
Intervista al prof. Bruno Mazzara, Vicepreside della Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università Sapienza http://www.uniroma.tv/storico.asp?order_by=data_inserimento&order_sort=DESC&id_video=6902&editoriale=&in_primo_piano=1&page=1&select_page=1
Intervista a Francesca Comunello, ricercatrice della Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università Sapienza http://www.uniroma.tv/storico.asp?order_by=data_inserimento&order_sort=DESC&id_video=6903&editoriale=&in_primo_piano=1&page=1&select_page=1
Intervista a Stella Teodonio, dottoranda in "Teoria e Ricerca Sociale" presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università Sapienza http://www.uniroma.tv/storico.asp?order_by=data_inserimento&order_sort=DESC&id_video=6901&editoriale=&in_primo_piano=1&page=1&select_page=1
8 commenti:
Massimo Canevacci
Lettera aperta per la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma
Le nuove scelte didattiche della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” mi impongono di rendere pubbliche alcune perplessità, poiché, a fronte di un’indubbia crisi dell’ordinamento triennale, si è deciso di ristrutturare l’ordine degli studi secondo una visione della comunicazione restaurativa e schiacciata sull’esistente.
In tal modo, la scienza della comunicazione rischia di ridursi a una preparazione professionale di taglio giornalistico; le connessioni sperimentali e trans-disciplinari con quanto emerge nella comunicazione digitale (estesa tra design, architettura, pubblicità, performance, musiche, moda, arte ecc.) spesso risultano incomprese, “non controllate” o neutralizzate in “tecniche”; e vengono ignorate, di conseguenza, quelle ricerche che stanno tentando modificare paradigmi espositivi, composizioni espressive, narrazioni multisequenziali.
Tale tendenziale rinchiudersi della comunicazione dentro un giornalismo asfittico e un’apologia dei media impoverisce la Facoltà, trasforma i docenti in funzionari dell’“industria culturale”, addestra gli studenti alla rinuncia all’innovazione e all’assenso disciplinato, chiude alle nuove professionalità che attraversano visioni, stili, linguaggi, è indifferente alle prospettive che nelle università estere da tempo vengono applicate in questo ambito (si veda il ruolo dell’antropologia culturale nei Media Studies in tante università estere – MIT, Humboldt Universität, Escola de Comunicação e Arte dell’Università di São Paulo con la quale ho stabilito un accordo di scambio tra docenti e studenti). Tutto questo rischia di configurare provincialismo disciplinare, endogamia mass-mediale, diffidenza dell’emergente, sottrazione delle potenzialità digitali.
La materia che ho insegnato per più 20 anni – Antropologia Culturale, materia fondamentale per gli studenti di primo anno – è stata soppressa, mentre a Roma, in Italia e ovunque, sarebbe necessario moltiplicare le ricerche con questo orientamento, per contrastare le pericolosissime onde razziste, le chiusure localistiche, i decisionismi verticistici, le grettezze mediatiche.
Si è preferito, invece, puntare su materie “classiche” (diritto e storia), eliminando la prima delle tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, sociologia, psicologia). Il docente che la insegnava viene “esiliato” al terzo anno del corso di laurea di Cooperazione e Sviluppo, con una materia denominata Comunicazione Interculturale. Già nel titolo del corso si esprime la continuità di un dominio neo-coloniale dell’Occidente verso un mondo “altro”: che la “cooperazione” sia focalizzata a dare aiuti economici ai laureandi e ai rispettivi Paesi di residenza, piuttosto che all’“altro”, dovrebbe essere ormai evidente; e sulla critica al concetto di “sviluppo” sono stati scritti così tanti saggi prima e dopo il ‘68 che è noioso solo ricordarlo. Quindi si crea una materia come Comunicazione Interculturale, che fin dal nome rafforza chiusure identitarie e culturali, regressioni scientifiche e formative, che purtroppo appaiono in sintonia con quelle politiche da “lega romana” adeguate al clima imperante, in cui un cattolicesimo appiccicoso cerca di controllare governi e opposizioni, atenei, facoltà, docenti.
I riferimenti cui la mia cattedra si è ispirata sono collocati, tra gli altri, nel filone antropologico inaugurato da Gregory Bateson: che, a partire dalle sue ricerche anticipatrici a Bali, hanno permesso di elaborare il “doppio vincolo”, concetto tra i più straordinari applicato sia alla comunicazione “normalmente” psico-patologica che ai mass media nascenti; fino alla sua collaborazione con Wiener per le primissime ricerche sulla cibernetica. Anziché dedicarsi a santi e madonne, processioni e proverbi – temi troppo spesso esclusivi nell’insegnamento di questa materia da noi – la ricerca antropologica di Bateson si inserisce nei flussi già all’epoca emergenti di comunicazione, tecnologia, alterità.
Infine, questa lettera non rivendica nulla di personale (vado in pensione dal prossimo anno e lascio quindi questa Facoltà). Essa esprime un posizionamento politico-culturale che individua, nella crisi crescente e apparentemente irreversibile della Facoltà di Scienze della Comunicazione, un problema su cui indirizzare la riflessione critica nell’interesse di docenti, studenti, impiegati: di chiunque viva e respiri l’aria di un’università che cerchi di dare senso ai futuri possibili e non si limiti a replicare il peggio dei presenti mediatizzati.
maxx.canevacci@gmail.com
bruno mazzara
Caro Massimo,
come potrai immaginare, la tua lettera mi ha molto sorpreso, sia per i toni che usi e le modalità con le quali l'hai diffusa, sia per il fatto che su questi argomenti (il ruolo dell'antropologia nei curricula di Scienze della comunicazione e il senso complessivo della comunicazione interculturale) abbiamo avuto di recente un lungo e sereno colloquio nel quale credevo di averti dato le informazioni che mi pareva ti mancassero e di aver chiarito alcuni dei tuoi dubbi più importanti.
Ti rispondo dunque nella mia veste di presidente dell'Area didattica che mi sembra sia oggetto delle tue critiche più radicali nonché di docente che condividerà con te il corso la cui denominazione (e il cui spirito) contesti, vale a dire Comunicazione interculturale.
Innanzitutto voglio dirti che considero assolutamente inaccettabile la tua affermazione secondo cui l'eventuale riduzione dello spazio per l'antropologia culturale nei nostri curricula avrebbe come esito la perdita dell'incisività critica rispetto al sistema della comunicazione, o addirittura, come dici, l'adesione ad una "visione della comunicazione restaurativa e schiacciata sull'esistente", quasi che la potenzialità critica fosse prerogativa esclusiva delle discipline di cui ti fai portavoce. Mi pare evidente che la capacità critica non può essere ancorata ad etichette disciplinari, ma è il risultato di scelte e di approfondimenti che ciascuna disciplina compie con gli strumenti scientifici che le sono propri. Certamente, come sai, esiste una lunga tradizione critica nella sociologia, che costituisce l'asse portante della nostra Facoltà, ma anche nella psicologia, che mi onoro di rappresentare, e così in tutte le altre articolazioni delle scienze umane. Respingo poi con forza l'idea, e qui parlo proprio in quanto presidente dell'Area didattica, che i nostri curricula siano appiattiti su un "giornalismo asfittico", di taglio tecnico-professionale. Nei nostri curricula gli insegnamenti di area giornalistica ci sono, come è giusto che sia, ma non sono affatto in numero esorbitante, e soprattutto sono perfettamente inseriti in quella cornice di scienze sociali che costituisce il pregio e il tratto distintivo della nostra Facoltà.
Tutto ciò premesso, ti faccio notare che non è affatto vero che gli insegnamenti di area antropologica siano stati sottovalutati o marginalizzati. La nostra Facoltà, come risulta chiaramente dai confronti nazionali dell'osservario Unimonitor, è una delle prime per presenza di tali materie nei curricula e per numero di docenti di quel settore. Come ti ho detto a voce, ciò che è avvenuto è che anche per l'antropologia, come per tutte le altre materie, i vincoli del nuovo contesto normativo hanno imposto un accorpamento dei moduli, sicché, come in molti altri casi, non abbiamo potuto mantenere la distinzione tra una materia "di base" e le sue applicazioni al campo comunicativo, né mantenere la chiara differenziazione fra le diverse sensibilità scientifiche che sono rappresentate nel settore. La materia si chiama ora "Etnoantropologia delle culture contemporanee", epigrafe che è sembrata abbastanza ampia da dare spazio a tutte le possibili declinazioni e applicazioni; è stata collocata al terzo anno sia per esigenze di compattamento dei curricula, sia perché è sembrato che si trattasse di un sapere che necessitasse, a monte, di una preparazione sui fondamenti delle altre discipline sociali e comunicative.
Né è vero poi che nei nostri curricula manchi la sensibilità a ciò che di nuovo si muove sul versante della comunicazione digitale. Questa tua affermazione mi sembra davvero paradossale, posto che l'etichetta è ora parte del titolo di ben due delle lauree specialistiche ed esistono almeno otto tra materie e laboratori che ne occupano in maniera diretta, tra cui una delle materie che ti è stata assegnata per il prossimo anno, appunto "Arti e culture digitali".
Ci tengo a segnalarti che tutto ciò è stato deciso nel corso di numerosi incontri istruttori, i cui risultati intermedi sono stati regolarmente inviati a tutti i docenti. Nel rispetto della normativa, ma soprattutto della sostanza della partecipazione democratica, l'articolazione della nuova offerta formativa è stata progettata in diverse riuinioni della Consulta paritetica per la didattica (come di consueto allargate a tutti i docenti), in apposite riunioni dei Consigli di Area didattica, e ovviamente in diversi Consigli di Facoltà, i quali hanno prima dato gli indirizzi generali e infine approvato il risultato del lavoro istruttorio. In tutte queste fasi i tuoi colleghi del settore sono stati largamente presenti, con osservazioni generali e proposte specifiche, che nella maggior parte dei casi hanno trovato convinto accoglimento. Resto quindi particolarmente stupito (e se mi permetti anche amareggiato) nel sentir aleggiare nel tuo scritto, e più ancora, in maniera anche esplicita, in alcuni interventi ascoltati in Consiglio, l'accusa di un accentramento verticistico delle decisioni.
E vengo infine ad una questione che mi preme molto, vale a dire il presunto carattere intrinsecamente conservatore e regressivo della tematica della cooperazione allo sviluppo, nonché della prospettiva della comunicazione interculturale. Qui il discorso si dovrebbe necessariamente approfondire molto al di là dei limiti di questa breve nota, e spero che ci sia presto occasione per farlo, anche in sede pubblica. Per il momento posso dirti che per quanto mi riguarda, come nel caso delle diverse discipline, né la potenzialità critica né gli intendimenti restaurativi possono essere agganciati in quanto tali ad un'etichetta: si può concepire la cooperazione e lo sviluppo in termini neo-coloniali o in termini profondamente rispettosi delle specificità e delle vocazioni locali, così come si può parlare di comunicazione interculturale concependo le culture come entità statiche e impermeabili oppure come processi dinamici in continua transizione e ibridazione reciproca. Ma su ciò avremo modo di confontarci in maniera proficua, se confermerai la disponibilità a svolgere insieme a me quel corso il prossimo anno.
In definitiva, mi sembra che le questioni che tu sollevi (la necessità di un approccio critico allo studio dei media e le modalità di relazione tra culture diverse) meritino molta attenzione e non debbano essere avvilite in polemiche che risentono di contingenze occasionali e vicende personali. Spero di avere presto occasione di discutere di tutto ciò, in pubblico e in privato, con la consueta serenità e costruttività.
Un caro saluto
Bruno Mazzara
paolo palmeri
3 luglio 2008 8.55
Lettera aperta al preside e ai colleghi della Facoltà di Scienze della comunicazione
Caro Preside,
per attenuare i toni delle reazioni al mio intervento in CdF di venerdì scorso, ritengo opportuno fare alcune precisazioni.
E’ mia opinione che la lettera di Canevacci, data la rilevanza delle critiche espresse e dei temi sollevati, meritasse di essere esaminata e commentata dal consiglio quel giorno stesso. La lettera solleva temi e problematiche da tempo discusse tra colleghi senza che tuttavia si sia raggiunta ancora una prospettiva analitica chiara e matura così da poter progettare una politica culturale incisiva e innovativa per SdC. Probabilmente le modalità in cui le idee di Canevacci sono state espresse e il contesto avrebbero richiesto una più lunga preparazione alla discussione e il mio intervento, forme meno irruenti. Tuttavia alcune incertezze rimangono e andrebbero affrontate in un dibattito, pur con dissensi e critiche, le cui conclusioni possano porsi a fondamento di una SdC radicata nel contesto socio-politico attuale e al servizio di una rinnovata società umanistica.
Canevacci mette in luce due fatti. Il primo:
a- Vi è una propensione a Sdc a dar spazio a forme di comunicazione legate all’establishment, ai contenuti mediatici così come ci vengono offerti dalla TV, ad un giornalismo prevalentemente celebrativo del potere, ad un’ideologia del consumismo, del prodotto, della marca. Il tendenziale orientamento di rinserrare la comunicazione dentro un giornalismo “asfittico” qual è quello attuale e di celebrare i media così come sono proposti dal sistema politico ed economico, impoverisce la Facoltà. La nostra “Scienza della Comunicazione rischia di ridursi a una preparazione professionale di taglio giornalistico; le connessioni sperimentali e trans-disciplinari [..] spesso risultano incomprese [..] e vengono ignorate [..] quelle ricerche che stanno tentando di modificare paradigmi espositivi…”
Ora si può essere più o meno d’accordo sui quest’analisi ma certamente queste osservazioni vanno prese in seria considerazione. Anche se fossero solo parzialmente vere, val la pena di verificare lo stato attuale del nostro modo di fare “comunicazione” e, nel caso, mettere in atto le procedure necessarie a farci produrre una reale conoscenza critica della comunicazione. Ad esempio, temi quali il packaging, la marca, la pubblicità potrebbero essere affrontati in maniera da mettere in evidenza i limiti del consumismo, il suo impatto negativo sull’ambiente, gli aspetti deleteri della pubblicità e di alcuni modelli di comportamento diffusi dalla TV.
In un clima politico quale è quello attuale mi sembra che SdC potrebbe maggiormente mobilitarsi per promuovere azioni, interventi, comunicazioni, filmati o quant’altro per denunciare, ad esempio, le posizioni di Maroni che sta mettendo in atto delle vere e proprie leggi razziali. Altri problemi simili sono quelli legati all’immigrazione, alla convivenza multiculturale, al rafforzarsi del carattere multietnico delle nostre città, al razzismo. Tutti temi “vigorosi” legati alla comunicazione. Temi dove, per la maggior parte, l’antropologia ha molto da dire sia sul piano teorico sia su quello della ricerca sul terreno.
Insomma si ha l’impressione che si dia maggiore spazio a rielaborare i temi classici e consueti della comunicazione e dei messaggi mediatici mentre si potrebbe rafforzare e privilegiare lo spazio dato a temi comunicativi “forti”, incisivi, realmente radicati nel contesto socio politico attuale.
Il secondo punto:
b- La riformulazione delle lauree triennali e di quelle Magistrali ha ridimensionamento la presenza e l’impatto delle materie antropologiche a favore di altre discipline. Canevacci dice testualmente: ”Si è preferito puntare su materie classiche (diritto e storia) eliminando la prima delle tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, Sociologia, psicologia).” Quindi non dice e non pensa che l’antropologia sia la più importante. Dice solo che è una disciplina tra quelle fondamentali per dare allo studente gli strumenti per elaborare un pensiero autonomo e critico e che lo spazio dato a questa disciplina è stato ridotto notevolmente.
Ancora una volta le interpretazioni possono essere diverse e contrapposte. La realtà può essere percepita dal punto di vista della commissione di programmazione oppure, ad esempio, dal mio. La mia opinione è che siano state fatte scelte che hanno ridimensionato l’antropologia a favore di altre discipline. Ciò che dice Canevacci è che lo spazio che un tempo si dava all’antropologia era importante per lo sviluppo e la formazione delle conoscenze tra i nostri studenti. Per sostenere questa sua affermazione cita scuole antropologiche e autori che sono i pilastri della nuova antropologia. Io vorrei ricordare anche la scuola francese che ha contribuito, con esponenti quali Devereux, Lacan e Foucault, alla rielaborazione di un’antropologia con prospettive teoriche e metodologiche innovative e radicate nel contesto attuale della globalizzazione, della multi cultura e dei conflitti che ne derivano. Per dirla con Massimo, l’antropologia non è “santi e madonne, processioni e proverbi” bensì vuole essere uno strumento euristico continuamente rimodulato per adeguarsi al cambiamento sociale e culturale. Comunicazione, media, messaggi o reti web possono essere contestualizzate e interpretate correttamente specialmente con l’uso dello strumento antropologico che esalta la dinamicità delle culture e delle loro diversità; che riesce a scorgere i primi tendenziali comportamenti innovativi che nascono nelle micro culture locali. Ecco quindi che il ridimensionamento dell’antropologia nel nuovo ordinamento approvato rischia di favorire un approccio acritico alla comunicazione.
Mi ricresce che la collega Faccioli si sia sentita offesa per quel mio “avete deciso tutto voi”. So quanto ha fatto per la Facoltà e ha la mia considerazione per il lungo lavoro svolto. Tuttavia la mia affermazione può avere anche un solo pizzico di fondamento. Ammetto che non si tratta certo di un accentramento verticistico delle decisioni prese dalla Commissione. Certamente posso ammettere di essere stato disattento e di non aver partecipato a tutte le riunioni. Ammetto anche che non avevo nessun titolo per aspettarmi di essere consultato. Tuttavia la sola persona che mi ha cercato in modo allarmato e informato di come stavano andando le cose alla Commissione, è stata la collega Rami.
Non sono stato neppure contattato da Leschiutta, che pure era un membro della Commissione. Alla fine ho potuto solo prendere atto delle decisioni prese. Ivi compresa la denominazione etnoantropologia al terzo anno di S.eT.d.C. Una denominazione certamente legittima e in uso presso altre Facoltà ma tuttavia riduttiva e fuorviante. I nostri studenti si meriterebbero di meglio e avrebbero bisogno di una buona etnologia e di una altrettanto buona antropologia che avrebbero potuto essere messe come discipline a scelta in alternativa.
Infine mi dispiace che il Preside abbia considerato la mia presa di posizione un’espressione direttamente critica ala sua gestione. E’ vero invece che, per quanto possa valere il mio appoggio, ho sempre sostenuto pubblicamente e in privato il suo operare.
Paolo Palmeri
bruno mazzara
3 luglio 2008 11.47
Il dibattito che si sta sviluppando su queste pagine sul ruolo dell'antropologia negli studi sulla comunicazione è molto interessante; ma non deve essere inquinato da inesattezze o vere e proprie falsificazioni dei fatti, com'è accaduto nell'articolo pubblicato ieri da Repubblica. Insieme agli altri presidenti di corsi di studio della Facoltà di Scienze della comunicazione di Roma Sapienza ho inviato ieri al quotidiano questa richiesta di rettifica, che ritengo utile mettere a conoscenza di tutti gli interessati. Ristabilire la verità dei fatti è essenziale per un sereno confronto, soprattutto per chi come me nutre grande stima personale e scientifica nei confronti di Massimo Canevacci.
Al Direttore di Repubblica
con riferimento all'articolo firmato da Elena Vincenzi, pubblicato in data 2 luglio 2008, segnaliamo che esso contiene affermazioni in qualche caso inesatte, in altri destituite di ogni fondamento, che risultano lesive dell'immagine della Facoltà. In proposito le evidenziamo quanto segue:
1. Non è vero che dal prossimo anno è stato annullato l'insegnamento dell'antropologia culturale nella nostra Facoltà. E' previsto infatti un insegnamento specifico di "Etnoantropologia delle culture contemporanee" al terzo anno della laurea triennale in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Altri moduli di insegnamento che fanno riferimento al medesimo settore disciplinare dell'antropologia culturale sono previsti nel complesso dell'offerta formativa della Facoltà (per un totale di 63 crediti). Comparativamente con quella di altri corsi di laurea in Scienze della Comunicazione in Italia, ed anche rispetto ad altri corsi di scienze sociali, la Facoltà di Roma risulta fra quelle con più significativa presenza di insegnamenti afferenti a quel settore disciplinare.
2. La riprogettazione dell'offerta didattica della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma Sapienza, obbligatoriamente prevista da una specifica normativa, è stata oggetto di un lavoro durato quasi due anni, che ha coinvolto in diversi momenti di confronto i docenti ed è stato arricchito anche da un costruttivo incontro con le parti sociali interessate. La nostra Facoltà è una delle poche che ha rinviato di un anno l'attivazione del nuovo ordinamento per estendere la possibilità di dibattito.
Il quadro dell'offerta formativa approvato all'unanimità dal Consiglio di Facoltà è pertanto il risultato di questo percorso, nel quale hanno dato contributo attivo anche i docenti che fanno riferimento al settore di antropologia culturale. Il prof. Canevacci, che per sua scelta non ha partecipato a questo percorso di elaborazione collettiva, ha sempre comunque ricevuto tutti i documenti prodotti nelle diverse fasi e non ha mai sollevato rilievi.
3. E' un falso che la Facoltà abbia deciso il pensionamento anticipato del prof. Canevacci, per la buona ragione che non è di competenza della Facoltà decidere sui tempi di pensionamento. Il prof. Canevacci sarà in servizio fino al 31.10.2009, avendo anche usufruito del biennio di proroga previsto dalla normativa.
Contiamo sulla circostanza che il giornale riconosca le buone ragioni di un'istituzione, documentate in questa nota, e confidiamo in un'adeguata rettifica, fermo restando il diritto della Facoltà per ogni azione a tutela dei suoi interessi.
Simona Colarizi, Presidente del Corso di Laurea interfacoltà in Scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e le relazioni tra i popoli
Franca Faccioli, Presidente dell'Area didattica in Comunicazione e organizzazioni per le imprese e le istituzioni
Bruno Mazzara, Presidente dell'Area didattica in Comunicazione, tecnologie e sistemi editoriali.
Gianluca Baccanico
3 luglio 2008 12.13
Per Bruno Mazzara:
Lei scrive nella sua nota
"si può concepire la cooperazione e lo sviluppo in termini neo-coloniali o in termini profondamente rispettosi delle specificità e delle vocazioni locali, così come si può parlare di comunicazione interculturale concependo le culture come entità statiche e impermeabili oppure come processi dinamici in continua transizione e ibridazione reciproca."
Per quanto si possa sperare che lei tenda verso la seconda interpretazione, mi preme farle notare che quanto lei ha scritto è scientificamente scorretto.
Non si può concepire la cooperazione internazionale come neocolonialismo ne si possono studiale le culture altre come se fossero statiche e autoreferenziali.
Spero lei si renda conto di stare offrendo un pessimo servizio alla facoltà che rappresenta.
Quanto lei afferma possibile riguarda forse e purtroppo le interpretazioni politiche dell'antropologia, abbandonando ogni pretesa di scientificità.
La ringrazio di aver voluto partecipare a questo dibattito, sottoponendosi a facili critiche.
Colgo l'occasione per invitarla a riflettere su quanto il nostro paese e la nostra Università dipendano dal coraggio che riuscirete a dimostrare in questi anni, al servizio che sarete in grado di offrire a generazioni che dovranno vivere in un mondo sempre più piccolo e interconnesso.
Gianluca Baccanico
Massimo Canevacci
3 luglio 2008 13.43
Al Direttore de La Repubblica
Leggo con estremo stupore la smentita che colleghi quali Franca
Faccioli, Simona Colarizi e Bruno Bazzara hanno inviato a La
Repubblica: questi miei colleghi stanno affermando chiaramente il
falso. E questo mi addolora profondamente. Antropologia culturale era
materia di primo anno: ed è stata eliminata. Questo è il fatto.
Antropologia culturale era (ed "è") materia che si chiama solo in
questo modo come la logica più classica afferma: Antropologia
Culturale, appunto. Se si trasforma in "etno-antropologia delle
culture contemporanee" è una altra cosa, non solo perché insegnata da
colleghi diversi ma perché si scrive in modo diverso e per questo
manifesta concetti diversi. Mi pare che la stessa banale logica
identitaria (non dico epistemologica) abbia abbandonato gli anzidetti
docenti, presi come sono dal furore di togliere di mezzo questa
disciplina che è e rimane Antropologia Culturale.
Antropologia culturale materia fondamentale al primo anno (a me
affidata e alla collega Rami, secondo una tradizione che risale al
Prof. Tullio Tentori) non può essere la stessa cosa di
"etno-antropologia delle culture contemporanee" al terzo anno
(affidata a Leschiutta e Sarnelli, che seguono ben altra tradizione
politico-culturale).
Perché questi tre docenti dichiarano il falso? Che messaggio stanno
dando non solo al giornale quanto agli studenti e a loro stessi?
Infine, la questione del mio "pensionamento" è stata una piccola
incomprensione con la giornalista Maria Elena Vincenzi già chiarita da
me ieri stesso con una lettera inviata sia al giornale che alla
facoltà. Eppure ora non posso non dire che se la facoltà avesse
offerto alla critica e alla ricerca spazi per continuare la didattica,
personalmente avrei trovato difficoltà ad andarmene. Ora sono
consapevole della correttezza delle mie scelte prese prima di questa
triste storia.
Massimo Canevacci
massimo canevacci
3 luglio 2008 18.32
Caro Bruno,
vedo con piacere che la tua lettera ha un’impostazione aperta e ferma come la mia prima e come sarà quest’ultima. Che inizia con una dichiarazione piena di una logica appassionata: l’antropologia culturale deve essere reinserita al primo anno.
La soluzione pratica si può e si deve trovare. La scelta politica per me è trasparente: basta dare un’occhiata alle tante mail che arrivano sul blog della Meltemi per penetrare le riflessività di tanti studenti ed ex-studenti per i quali questa materia (insieme ad altre) al primo anno ha contribuito a un processo di apertura mentale e riflessività intra-personale che oltrepassa la singola disciplina. È questo transitare continuo tra le grandi questioni che appassionano ogni singola persona, specie nei momenti fondamentali della propria esperienza formativa – il senso, culturalmente differente, attribuito a morte, religione, politica, sessualità, corporalità, espressività, metropoli. È questo penetrare i tratti micro della comunicazione (pubblicità, design, arte, architettura, web, ecc.) e delle esperienze etnografiche sul campo (polifonie Bororo, Xavante, Kraho e sincretismi metropolitani tra São Paulo, Roma, Tokyo). È questo che fa la specificità dell’antropologia culturale. Non la sua riduzione a “esame”. Infatti gli studenti più sensibili (e per me sono tanti!) non “fanno l’esame”, bensì presentano le loro riflessioni creative, partendo dal corso e dai testi, per arrivare alle loro tesine in forma di composizioni. Questo lavoro si intreccia con lo studio delle altre materie: non ho mai detto che la mia materia è l’unica a svolgere tale funzione. Dico che è parte costitutiva ineliminabile della didattica offerta agli studenti nel primo e più aperto degli anni formativi.
La scelta di alcuni colleghi di proporre l’inserimento di una disciplina quale “etno-antropologia delle culture contemporanee” esprime una posizione discutibilissima, e la facoltà, accettando questo titolo aberrante – per compiacere docenti sempre attratti solo da madonne e tradizioni popolari –, dichiara esplicitamente di non essere in grado di svolgere la sua funzione didattica e di ricerca. Mescolare etnologia e antropologia, che in Italia hanno lunghe e complesse storie che non è il caso di ricordare adesso, significa offrire un titolo incomprensibile che allontana definitivamente queste discipline dagli orientamenti internazionali. Aggiungere, poi, la specificazione “delle culture contemporanee” inserisce elementi gravissimi di confusione tra un razzismo implicito e un eurocentrismo dichiarato: Malinowski quando studiava i Trobriandesi non studiava forse culture a lui contemporanee? O Geertz, osservando il combattimento dei galli a Bali, non era profondamente immerso nella sua contemporaneità? E le ricerche etnografiche tra i giovani raver degli anni ‘90, gli avatar dei primi 2000 o i “filippini” che vivono ai margini della stazione Termini non sono altrettanto contemporanei delle costruzioni di Toyo Ito o delle istallazioni di Bill Vilola? O dei Bororo, degli Xavante, o di noi stessi? Questa titolazione disciplinare sottintende che gli attuali Bororo sono parte di culture del passato, come tanti giornali hanno recentemente sostenuto, pubblicando articoli e servizi sulla scoperta degli “uomini rossi” in Brasile e che ho cercato proprio a RAI1 di contrastare inutilmente. La maggior parte dei giornalisti pensa ancora ai popoli viventi in luoghi “esotici” come l’Amazzonia come a primitivi che sbucano dal passato. Anzi, come al passato archeologico dell’umanità. Culture primitive senza virgolette, selvagge come tanti continuano a scrivere, culture che non usano come noi le tecnologie digitali (video, internet, cd ecc.), o che, se lo fanno, sarebbero state omologate dall’Occidente! Razzismi diffusi, pregiudizi dominanti, etnocentrismi volgari. Stereotipi, come alcuni di quelli che spesso riguardano noi italiani: provinciali, mediterranei e rozzi. Ignoranze legittimate dalle università italiane? Insomma, sottolineare la dimensione contemporanea delle culture e agglutinare perversamente etnologia e antropologia è disastro linguistico, catastrofe disciplinare, decesso universitario. Questo sta legittimando la nostra facoltà.
Ho pudore a parlare di me. Eppure, l’avermi “affidato” una materia contraria ai miei principi scientifici (Comunicazione Interculturale) che – simmetricamente – afferma la stessa logica perversa di una “etno-antropologia delle culture contemporanee”, suscita la mia ribellione e impone il mio fermo rifiuto a legittimare, nella nostra facoltà, una visione tardo-colonialista delle relazioni tra “noi” e gli “altri”, in cui passa un concetto “neutro” di sviluppo messo sotto critica da decenni. Esiliato al terzo anno di un corso di laurea come “Cooperazione e Sviluppo”, dove per cooperazione si intende sempre più chiaramente un processo eurocentrico di autofinanziamento per esportare modelli esogeni a differenti culture, spesso di sostegno agli interventi militari, di cui Comunicazione Interculturale diviene materia vassalla al dominio di un certo “Occidente”. Esattamente l’opposto di quella che è stata fin dall’origine l’esperienza critica e la forza epistemologica di ogni antropologia, anche alla faccia degli studi post-coloniali.
Questa si chiama restaurazione politico-culturale. Questo si chiama provincialismo e rischio di schiacciarsi sulle politiche dominanti.
Mi dispiace, caro Bruno, ma non trovo altri termini per definire lo stato della facoltà e vorrei che anche altri colleghi si smuovessero dal loro torpore. La gravità estrema della politica italiana e in particolare della nostra città dovrebbe favorire ed estendere le ricerche etnografiche sulle complesse relazioni comunicazionali ed espressive tra questi “noi” e questi “altri” e anche questi “altri-noi” che si incrociano, si innestano e si ibridizzano – anche conflittualmente – sempre più.
Il preside e anche tu mi avete detto: perché non l’hai detto prima? È un’osservazione giusta. La mia spiegazione è la seguente:
1. In primo luogo, sono un ricercatore “puro”, mi dedico da sempre a questo e in genere mi relaziono con difficoltà alle attività istituzionali previste dalla facoltà. Riconosco che è un mio limite.
2. È vero, non ho partecipato anche all’ultima riunione decisiva, ero a Tokyo con sei miei studenti per fare alcune lezioni su invito della Musashino University, che non casualmente si basa su comunicazione, arte, design. Forse immaginavo che i destini dell’antropologia non fossero legati solo al sottoscritto, bensì anche a colleghi “affini” e alla facoltà nel suo insieme. Non è stato così. Non solo, è avvenuto il contrario: una sopraffazione di colleghi dimessi, pronti ad accettare e a sottomettersi a qualsiasi dispositivo gerarchico.
3. I precedenti presidi (Abruzzese e De Masi), pur nelle nostre differenze e direi proprio grazie alle nostre differenze, mi hanno coinvolto nella gestione della facoltà e ho sempre accettato con passione. Ex-cathedra è stato un esempio che qualcuno ricorderà, anche se la partecipazione dei colleghi fu episodica. Con l’attuale preside, si è stabilito fin dall’inizio un rapporto di non ingerenza reciproca che personalmente ho sempre rispettato. Solo ora posso dire – a partire dalla nuova programmazione dei corsi di laurea – che la sua impostazione si presenta molto diversa da come a mio avviso dovrebbero offrirsi le scienze della comunicazione: un visione estesa ad ampio raggio sulla complessità straordinaria che offrono le prospettive comunicazionali trans-disciplinari e sperimentali. Al contrario, a me pare che la facoltà si stia restringendo dentro una gabbia giornalistica orientata verso i tradizionali mass-media, abbassando le potenzialità digitali a semplici tecniche da apprendere. Si vedano gli incontri programmati e le numerose attività della presidenza, fino alla sorpresa dell’ultimo consiglio di facoltà dove il preside ha annunciato la trasformazione delle bacheche in outdoor pubblicitari, senza che un solo docente abbia sollevato non dico un’obiezione, ma una timida domanda almeno sul tipo di pubblicità e su come questo ingresso pubblicitario verrà percepito dagli studenti. La mia conclusione, caro Bruno, è un invito a rompere le tue chiusure, a riaprire il dialogo e a leggere con dolcezza e attenzione le mail che arrivano al blog che una straordinaria casa editrice militante e partecipativa ha scelto di affiancare: la Meltemi. Esse parlano di una nostra facoltà che tu hai ancora la possibilità di far vivere.
Un caro saluto
Massimo
PS Leggo con estremo stupore la smentita che colleghi quali Franca Faccioli, Simona Colarizi (responsabile del tardo-colonialismo storico) e te stesso avete inviato a La Repubblica: state affermando chiaramente il falso. E questo mi addolora profondamente. Antropologia culturale era materia di primo anno: ed è stata eliminata. Antropologia culturale era (“è”) materia che si chiama solo in questo modo come la logica più classica afferma, Antropologia Culturale, appunto: se si trasforma in “etno-antropologia delle culture contemporanee” è un’altra cosa, non solo perché insegnata da colleghi diversi ma perché si scrive in modo diverso e quindi risponde a concetti diversi. Mi pare che la stessa banale logica identitaria (non dico epistemologica) vi abbia abbandonato, presi come siete dal furore di togliere di mezzo questa disciplina che è e rimane Antropologia Culturale. Invito tutti i colleghi a prendere posizione almeno su questo punto: se antropologia culturale fondamentale al primo anno (a me affidata e alla collega Rami) sia la stessa cosa di “etno-antropologia delle culture contemporanee” al terzo anno (affidata a Leschiutta e Sarnelli). Perché tre docenti come voi dichiarano il falso? Che messaggio state dando non solo al giornale quanto agli studenti e a voi stessi?
Infine, la questione del mio “pensionamento” è stata un’incomprensione con la giornalista già chiarita da me ieri stesso con una lettera inviata sia al giornale che alla facoltà. Eppure ora non posso non dire che se la facoltà avesse offerto alla critica e alla ricerca spazi per continuare la didattica, personalmente avrei trovato difficoltà ad andarmene. Ora sono consapevole della correttezza delle mie scelte prese prima di questa triste storia.
Massimo Canevacci
Intervista al prof. Bruno Mazzara, Vicepreside della Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università Sapienza
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Intervista a Francesca Comunello, ricercatrice della Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università Sapienza
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Intervista a Stella Teodonio, dottoranda in "Teoria e Ricerca Sociale" presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università Sapienza
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