4/03/2008

Tibet: i diritti umani tra diplomazie e proteste

Il Dalai Lama ha rivolto un appello alla Cina chiedendo di aprire un "dialogo significativo" per trovare una soluzione pacifica a seguito dei disordini scoppiati in Tibet, a dispetto delle accuse mosse dal governo cinese che lo aveva accusato di esserne responsabile. Il leader spirituale ha auspicato "sforzi sinceri" per arginare la situazione di tensione creatasi tra la Repubblica Popolare e le minoranze etniche. A differenza delle informazioni abilmente diffuse per screditare la sua immagine, il capo buddhista ha ribadito di non volere la secessione del Tibet dalla Cina, ma soltanto una maggiore autonomia. "Ho manifestato alle autorità cinesi – ha detto - la mia volontà di collaborare per riportare pace e stabilità in Tibet. Invito la dirigenza cinese a fare uso di saggezza e a intraprendere un dialogo significativo con il popolo tibetano per evitare di creare spaccature tra le differenti nazionalità». Non risparmia tuttavia le accuse: "L'atteggiamento dei media di stato cinesi sui recenti eventi in Tibet, usando menzogne e immagini distorte, potrebbe insinuare il seme della tensione razziale con imprevedibili conseguenze a lungo termine". Un pacato ma deciso rimprovero verso la politica di insabbiamento del governo cinese, che ha minimizzato il proprio intervento, nonostante le gravi repressioni attuate verso i monaci. Le reazioni politiche sono state varie. Il Presidente americano Bush sceglie la via diplomatica, chiedendo "prudenza" nel gestire le proteste dei tibetani. Differente è l'opinione di Nicolas Sarkozy, che non ha escluso il boicottaggio della cerimonia delle olimpiadi, sebbene le posizioni della Francia siano poi state ammorbidite dalla dichiarazione di Bernard Kouchner, il ministro degli Esteri: "Nessuno chiede un boicottaggio totale, questo è chiaro. Noi non siamo anticinesi". La Gran Bretagna ha sottolineato la sua posizione con fermezza, affermando che parteciperà alla cerimonia di apertura, mentre alcuni, come il premier polacco Donald Tusk esprimono scetticismo sulla propria presenza alle Olimpiadi.
Intanto, continuano le manifestazioni. A Kathmandu un gruppetto di studenti tibetani fra i 13 e i 16 anni è riuscito ad entrare nel cortile dell'ufficio delle Nazioni Unite. Inneggiando alla libertà della loro terra, hanno manifestato pacificamente per attirare l'attenzione delle autorità e chiedere l'intervento del Palazzo di Vetro per porre fine alle violenze nella regione himalayana. Cinque di loro sono stati portati via dalla forze dell'ordine. L'organizzazione umanitaria americana Human Rights Watch ha accusato il governo del Nepal di aver prospettato il rimpatrio forzato agli esuli tibetani riparati oltre confine, e di "servirsi della minaccia della detenzione e della deportazione in Cina per mettere a tacere il dissenso pacifico".
Nonostante le continue denunce da parte di associazioni come Amnesty International per le violazioni dei diritti umani che la Cina perpetua indisturbata, la comunità internazionale sembra aver scelto la strada della diplomazia, della quieta e timida denuncia, se non del tacito assenso. E' lecito forse chiedersi se la potenza del gigante cinese abbia a che fare con questa pacatezza delle reazioni. L'enorme crescita economica che la Repubblica Popolare ha conosciuto negli ultimi anni non è coincisa con altrettanta democrazia, e ciò con cui i Paesi occidentali devono fare i conti è un'immensa forza capitalistica in grado di imporre le proprie regole, anche a livello politico. Date le premesse, l'unico intervento auspicabile è quello delle Nazioni Unite. Nonostante la perdita di autorità che l'Onu ha subito negli ultimi anni, sembra che le vittime del regime cinese (tibetani e non solo) possano contare solo su un'intercessione super partes, oltre che sulle migliaia di occhi dell'opinione pubblica mondiale puntati addosso.

Irene Petraccone

1 commento:

Anonimo ha detto...
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